venerdì 12 aprile 2013

Ciao lady

di Nicola Forlani

 Pochi giorni prima dell'annuncio delle sue dimissioni, la Lady di ferro partecipò al Senato della Repubblica, al Consiglio europeo del 27/28 ottobre 1990 in Roma. Io ero lì, a neanche dieci metri dall'ingresso del Senato, oltre le transenne, di fianco ad un commissario di polizia.

Ero l'organizzatore, per il MFE, di una manifestazione di un centinaio di federalisti assiepati dietro una transenna. Il commissario mi volle di fianco per indicargli, eventualmente, se ci fossero infiltrati tra i nostri agitatori, visto che eravamo veramente ad un tiro di schioppo da dove i capi di stati e di governo uscivano dalle auto. Scendevano alla spicciolata, pochi minuti uno dietro l'altro. Poi la carovana si interruppe: Mitterrand aveva fatto fermare la sua auto un centinaio di metri prima. Arrivo a piedi, con la regalità di un sovrano, per raccogliere la nostra ovazione.

Poco dopo l'arrivo di Kohl, accolto da noi con altrettanto consenso. Successivamente fu il turno della Thatcher. Come usci dall'auto gli riservammo un boato di schiamazzi e di urla, così forti, che il servizio d'ordine si schierò a coprirla con il corpo, mentre dalle finestre del Senato, di divo Giulio si affacciava per raccogliere quanto aveva seminato. Era lui che ci aveva consentito di avvicinarsi così tanto al Vertice, era lui che voleva mettere "sotto pressione" mediatica la Dama di ferro. Quella nostra caloroso accoglienza fu la notizia di apertura dei tg di mezzo mondo.

Voglio ricordarla così, come fiera avversaria dei federalisti, come esempio di una classe politica di cui, al di là delle convinzioni politiche, questa vecchia e stanca Europa sente una grande mancanza. 

 Campoleoene, 12 aprile 2013

lunedì 10 dicembre 2012

I federalisti non possono stare a guardare

di Nicola Forlani



Agli amici federalisti

Campoleone, 10 dicembre 2012

Cari amici,

credo che le vicende politiche nostrane degli ultimi giorni richiedano una netta e ferma presa di posizione del MFE. E’ evidente che forze moderate si stanno organizzando su un programma politico dichiaratamente antieuropeista. Il calcolo di convenienza è evidente: a destra si corre per vincere la gara tra chi riuscirà a porre una forza di interdizione al Senato contro la gioiosa macchina da guerra di Bersani e compagni.

Cavalcare il disagio sociale facendo dell’Unione europea il capro espiatorio della crisi e fin troppo facile. I sentimenti antieuropeisti sono diffusi, sin ora malcelati, ma è indubbio che se a dargliene forma saranno le armate mediatiche del Cavaliere, anche la partita elettorale potrà degenerare, ed al peggio non c’è mai limite.

Il MFE distingue in progressisti e conservatori sulla base di parametri sovrannazionali, in particolare tra chi è a favore della costruzione di una solida federazione europea e chi ne è fieramente contro. Difficile nella quotidianità distinguere tra il tasso di europeismo del controdestra e del centrosinistra italiano. Le contraddizioni sono innumerevoli. Ma si sta per profilare una situazione completamente diversa dove l’antieuropeismo stesso diventa il cemento fondante di un nuovo patto politico di governo.

In tale prospettiva i federalisti non possono stare certo a guardare. Siamo in una situazione di assoluta eccezionalità ed è nostro dovere morale prendere posizione.

Un caro saluto.

lunedì 22 ottobre 2012

Perché non ritirare il Nobel per la pace all'Ue

Il 12 ottobre 2012, il comitato norvegese per il Nobel ha assegnato quello per la Pace all'Unione europea. Il voto è stato unanime, come annunciato dal presidente del comitato Thorbjorn Jagland. Il premio di otto milioni di corone svedesi è stato assegnato per “aver contribuito per sei decenni all'avanzamento della pace e della riconciliazione, la democrazia e i diritti umani in Europa".

Non è certo la prima volta che un'organizzazione internazionale riceve tale riconoscimento, anzi. Proprio il primo fu assegnato nel 1901 al fondatore della Croce Rossa, Jean Henri Dunant. La stessa Croce Rossa ha ricevuto il premio, con diverse motivazioni ancora nel 1917, 1944 e 1963. La Nazioni Unite l'hanno ricevuto ben sette volte; l'ultima è del 2007, andata al Comitato Intergovernativo per i Mutamenti Climatici.

Giusto per la cronaca, anche per dare il giusto peso alla lieta notizia giunta ai vertici istituzionali dell'Ue, è bene ricordare che il premio vede tra gli insigniti al merito tre presidenti degli Stati Uniti, da Theodore Roosevelt, passando per Jimmy Carter e sino a Bark Obama, in buona compagnia di Willy Brandt, Lech Walesa, Michail Gorbacev, Yasser Arafat, Scimon Peres, Yizhak Rabin e Al Gore, ma non è stato mai assegnato al Mahatma Gandhi. Guarda un po' la combinazione.

Solo dal 1987 il comitato esprieme una motivazione per il prestigioso riconoscimento, e quella per l'attribuzione all'Unione, non fa un grinza. E' indubbio che l'organizzazione in oggetto abbia contribuito (non certo da sola andrebbe aggiunto, ma è una pura ovvietà), al consolidamento di rapporti pacifici tra paesi storicamente in permanente conflitto nel vecchio continente, Francia e Germania in testa. E' stata anche un elemento catalizzatore di interessi economici che hanno sospinto paesi in regimi dittatoriali (Spagna, Portogallo, Grecia e successivamente gli stati satelliti dell'Urss) verso modelli di democrazia consolidata. Ed ancora. Il suo impegno nell'affermazione dei diritti umani, per quanto con politiche contraddittorie ed non sempre adeguatamente sostenute finanziariamente, è indubbio.

Ma. Esiste un ma grande come una casa. Con una punta di ironia tutta britannica e dopo l'invito di Herman Van Rompuy (Presidente del Consiglio Ue) ai ventisette capi di stato e di governo perché vadano ad assistere alla cerimonia del prossimo 10 dicembre ad Oslo, David Cameron ha affermato : “ci sarà gente a sufficienza per ritirare il premio”, e c'è da scommetterne. Il Primo ministro britannico non si è fatto sfuggire anche una notazione di merito: “anche la Nato ha contribuito”. Vero, anche la Nato ha giocato un ruolo del tutto simile all'Ue per la pace, la democrazia e l'affermazione dei diritti umani. Come si potrebbe mai negarlo? Probabilmente anche il Patto di Varsavia è stato un elemento equilibratore di spinte centrifughe che stavano per condurci nel precipizio del terzo conflitto mondiale. E allora?

E allora, aver contribuito a, come dichiarato nella motivazione, non toglie nulla a tutto ciò che l'Unione europea non ha fatto o meglio, non è grado di fare, tanto nell'immediato che in prospettiva. E' qui il discrimine di chi vuol far finta di non capire.

Tra i commenti che si sono susseguiti alla notizia dell'assegnazione del Nobel, si annoverano quelli dei tiepidi europeisti (ovviamente celebrativi di ciò che si ha, del contingente). Altre reazioni, o per motivi dello spirito, come per i costruttori di pace, o per motivi politici, come per i federalisti, sono state ponderatamente critiche, se non, in alcuni casi, apertamente, dissacratorie.

Alcuni europeisti alla giornata sono arrivati persino ad avanzare l'ipotesi che ben per altre motivazioni, alla memoria, dovesse essere ritirato il premio. Si è tirata in ballo addirittura la figura di un autentico gigante del pensiero federalista, Altiero Spinelli. Perché non allora alla memoria di Paul Henri Spaak. In tal caso sarebbe stata la nipote Catherin a dirigersi verso Oslo, con indubbio piacere tanto per gli occhi e che per la mente.

Tanto i pacifisti che i federalisti sono costruttori. I primi coltivano, su se stessi prima che sugli altri, atteggiamenti sociali e culturali. I secondi vogliono erigere strutture politiche sovranazionali. Entrambi hanno però una caratteristica che li accomuna: rivendicano, chiedono e si adoperano per ciò che non esiste; non hanno alcuna tendenza a crogiolarsi di quel po' che è già sotto i nostri occhi.

Per i federalisti, in particolare, è determinante sottolineare come i paesi del vecchio continente, Francia, Germania ed Italia in testa, pur se animatori, sessantanni or sono, della prima Comunità del carbone e dell'acciaio, oggi si sottraggano ad una precisa responsabilità storica che ricade su di loro: quella responsabilità che dovrebbe condurli a dichiarare l'impegno per la fondazione di una prima vera e definita entità statuale supernazionale.

Solo con un'autentica Federazione politica si entrerebbe in quell'ambito di irreversibilità del processo di integrazione che molti già danno per acquisita. Tra l'altro, i più avveduti, si rendono anche ben conto che il processo potrebbe anche fermarsi, se non addirittura implodere, sotto le spinte di interessi non più concomitanti.

Solo con lo Stato Europa si potrebbe svolgere un'attiva opera di pacificazione a livello internazionale nelle principali aree di crisi, ad iniziare dal Medio Oriente.

E' evidente che ciò interessa molto poco ai membri del comitato norvegese per il Nobel, figli di un popolo che ha scelto per ben due volte, con referendum, di rifiutare la prospettiva stessa dell'integrazione europea. La prima consultazione che ha dato esito negativo è del 25 settembre 1972, sull'adesione alle Comunità europee. Altro referendum dove i norvegesi si sono espressi per il no è quello sull'Unione europea del 27-28 novembre 1994. A seguito di questi espliciti dinieghi a nessuno è venuta in mente la balzana idea di chiedere ritorsioni, che so, prevedendo il boicotaggio dello stoccafisso all'interno del mercato unico, ma venirci ora a fare la lezioncina sulle doti maieutiche del processo di integrazione ha veramente del paradossale.

Il prossimo 10 dicembre il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, e il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, andranno insieme a Oslo per ritirare il Nobel per la pace.

Nel corso di una conferenza stampa lo stesso Schulz ha ironizzato dicendo: Herman ritirerà la medaglia , Jose’ Manuel il certificato, e io la moneta’’.

Non c'è che dire. Sono mille i buoni motivi per cui non ritirare il premio, almeno fin tanto che alcuni volenterosi non abbiamo fondato la prima vera Federazione nella più ampia Unione.

La foto di rito chiede di mettersi in posa, ognuno, di par suo, per tentare di passare a maggior gloria. C'è da scommettere che lor signori, impettiti e gaudenti, continueranno a far finta di non vedere il baratro della dissoluzione della più grande, ed incompiuta, ambizione politica del novecento.

Nicola Forlani

Campoleone, 21 ottobre 2012

lunedì 15 ottobre 2012

Lettera aperta al segretario della GFE

Lettera aperta al segretario della GFE, Simone Vannuccini

Caro Simone, colgo l’occasione della tua convocazione del Comitato Centrale della GFE, previsto a Salsomaggiore Terme per il prossimo 21 ottobre 2012,  per condividere, “coram populo”, qualche osservazione da federalista distante, distante dagli equilibrismi di un movimento che, ti confesso, faccio sempre più fatica a comprendere.

La campagna per la federazione europea era già stata abbozzata in quel lontano congresso di Catania. Un congresso dove si è consumata l’apoteosi di un Movimento del tutto uguale a qualsiasi altra organizzazione politica. In quell’occasione i tatticismi  di potere fine a se stessi si sono manifestati nella loro più risplendente espressione.

Sai, per chi come me è cresciuto ascoltando Mario Albertini che si esercitava, da intellettuale puro, sul nuovo modo di fare politica, dagli oggi, dagli domani, a quei principi si era intimamente affezionato. Dover constatare che erano affermazioni solo per i gonzi, per quelle poche anime belle che potevano veramente abboccarci, è una costatazione molto poco edificante.

Eppure, oggi, non si può che ammettere che il contorno strategico della campagna per la federazione europea abbia quantomeno il pregio di avere un capo ed una coda, una sostanziale coerenza che non può certo essere sottaciuta e che va a tutto merito non solo dei militanti che la stanno sostenendo,  ma di chi ha l’oneroso fardello di condurre le redini organizzative del Movimento. Cosa della quale non possiamo che rallegrarci, sia chiaro.

Quanto alla proposta di ICE, fantozzianamente, dopo anni ed anni che qualcuno ci sta a massacrare gli attributi, non sarà arrivato il momento di dire, parafrasando il ragionier Ugo, che l’ICE …  è una …. Sono anni che ci si illude di armarsi è partire, quando nessuno ha la benché minima voglia o intenzione di raccogliere, per quelle quattro parole in croce, una beata firma.

Ed invece no, anche tu che rappresenti le nuove generazioni, sei ormai tutto impegnato a ribattere la proposta di ICE ad ogni piè sospinto. Orami è come  un blob gelatinoso sta per invadere anche le vostre giovani coscienze. Parla di quel che ti pare ma mettici la proposta dell’ICE a qualche pizzo, altrimenti non si è politicamente corretti.

Simone caro, che barba, che noia. Se per ogni incontro dove si è parlato di questa ICE, che ormai simboleggia il ruolo dell’inutilità nel progredire del genere umano, si fossero raccolte, non dico molto, cento firme, oggi come oggi se ne conterebbero a milioni.

La verità la conosciamo tutti, ma nessuno la dice. Questa roba trita e ritrita dell’ICE viene ributtata solo in ossequio dell’accordo di maggioranza che tiene dentro 400 voti congressuali coltivati ai piedi della Mole Antonelliana, null’altro. Ed io, essendo nessuno, la posso dire.

Quanto all’azione settimanale (action week mi sa tanto di una purga ad efficacia differita, ma garantita) militanti della sezione di Campoleone non faranno mancare il proprio contributo all’iniziativa in via del Vicario, qui a Roma. Perché si partecipa? Come direbbe Tenco: “mi sono innamorato di te, perché, non avevo niente da fare”. 

Un caro saluto e a presto.

Nicola Forlani

Campoleone, 15 ottbore 2102

domenica 23 ottobre 2011

Congresso regionale MFE Lazio

Comunicazione inviata ai delegati del congresso regionale MFE Lazio previsto per venerdì 14 ottobre in Roma.


Cari amici,

improrogabili impegni istituzionali mi trattengono qui alle pendici "de li Castelli". Prego di volere presentare le mie giustificazioni a tutti i federalisti che si riuniranno per il congresso regionale Lazio.

Con l’occasione vorrei però condividere con voi qualche riflessione, tanto di ordine politico che organizzativo, ma andiamo per ordine.

La crisi economico finanziaria su scala globale sta mettendo drammaticamente in evidenza l’intrinseca debolezza del sistema comunitario; una tecnostruttura priva ormai di qualsiasi capacità propulsiva. Sessanta anni di integrazione europea hanno segnato sviluppo, crescita economica e benessere diffuso, in un clima di sostanziale pacificazione, ma i risultati raggiunti non sembrano più sufficienti a fare argine alle sfide del futuro.

Quando persino il Brasile si dichiara pronto a venire in soccorso alle debolezze strutturali dell’Unione monetaria o, per contrasti tra gli atteggiamenti enfaticamente dirigisti dell’accoppiata franco/tedesca con la truppa sparsa di tutti gli altri stati membri, si rimanda il previsto Consiglio europeo (senza alcuna ripercussione negativa sugli indici di borsa), vuol dire che ci troviamo di fronte all’orlo del baratro, dove nulla è più escluso, nemmeno la dissoluzione dell’Euro.

In tale prospettiva, anche il ruolo dei federalisti trova soventi contraddizioni che si palesano in inconcludenti atteggiamenti riformistici. L’idea che sia possibile superare la crisi economica con soluzioni tecnico finanziarie, è una pura illusione; soluzioni, tra l’atro, sempre più incomprensibili al cittadino medio. L’opinione pubblica europea si sta progressivamente allontanando da quella sorta ci ceca fiducia europeista che ha alimento il processo di integrazione a carattere puramente funzionalista.

Pur in presenza delle non democraticità del sistema comunitario, gli europei, nella buona maggioranza, hanno riposto sempre speranza nel processo di integrazione nella misura in cui, solo funzionalmente, tale prospettiva garantiva un netto miglioramento delle condizioni economiche generali, ed in particolari di quelle dei lavoratori e del ceto medio. La crisi economica globale ha messo in crisi tale elemento di consenso, e con esso lo stesso approccio funzionalista che ha, di fatto, esaurito la sua spinta propulsiva.

Anche la recente iniziativa del MFE sull’ICE, in tema di piano europeo di sviluppo, mostra tutta la sua inadeguatezza. Essa non introduce alcun elemento nuovo nel dibattito politico. Tutti parlano di piano di sviluppo, e da anni, ad iniziare da Barroso che ritiene di essere già egli stesso il miglior governo a cui l’Europa possa aspirare. Vista l’inconcludenza degli stati nazionali, ostaggi persino del recente veto slovacco sull’ampliamento del fondo salva stati, anche il Presidente della Commissione appare un illuminato statista. Non solo. L’iniziativa prospettata, tutta in punta di un indigeribile dirigismo finanziario, sostiene l’introduzione di nuove tasse (la carbon e quella sulle transazioni finanziarie – tra l’altro di dubbia applicazione entrambe) non sostitutive, ma aggiuntive ad un opprimente sistema fiscale che sta raggiungendo livelli intollerabili per qualsiasi competitiva economia di mercato.

Gli stati europei, oggi come mai in passato, hanno la responsabilità storica, di costruire una compiuta Federazione europea, ponendo senza ambiguità la questione della fondazione dello Stato sovrannazionale dotato di proprio bilancio. Tale bilancio andrà alimentato certo di risorse proprie, ma con un sistema di tassazione in parte sostitutivo di quello nazionale. I grandi settori di intervento, dove sicuramente è possibile ottenere economie di scala, sono quella della politica di difesa, della ricerca scientifica (di base ed applicata), delle politica energetica e delle grandi reti infrastrutturali. In parole povere, è la questione tutta politica della cessione di poteri sovrani alla nuova struttura continentale che i federalisti dovrebbero tentare di imporre nel dibattito in corso, anche attraverso l’uso di iniziative a valore tattico, non altro.

In tale prospettiva, la definizione di un nucleo di avanguardia degli stati su cui far gravare la responsabilità storica del destino del vecchio continente è assolutamente emergente. Non c’è alternativa ad un nuovo percorso che conduca alla costruzione di una piccola Federazione, nella più grande Unione, con la definizione di nuovi trattati ponte che possano regolare la vita delle due strutture sovrannazionali. Forse un obiettivo al momento impossibile? Forse nella vecchia e cara Europa si è ormai chiusa la finestra di opportunità per la creazione della Federazione? Forse, forse, ma il ruolo di un movimento di avanguardia non può fossilizzarsi in un inconcludente europeismo di maniera che può interessare solo il ruolo e il prestigio di chi lo propugna. Un vecchio adagio recita: il cane con l’osso in bocca non solo non morde, ma non abbaia nemmeno. Temi di grande complessità, che sicuramente non possono trovare adeguata rappresentazione in queste poche righe.

Ma passiamo agli aspetti organizzativi, anche se su questi non vorrei tediarvi eccessivamente. Mi pare abbastanza evidente che a scapito del Centro regionale Lazio del MFE (organizzazione eminentemente politica) ci sia l’intenzione di riproporre un approccio tutto aziendalista al federalismo. Il documento fatto circolare recentemente è lì a dimostrarlo. Progetti, flussi finanziari, militanti da pagare adeguatamente alle responsabilità richieste, promesse non mantenute, conflitti, consenso basato sull’interesse e non sull’intima convinzione. Questa deriva, già conosciuta negli anni passati, e di cui faccio fatica a parlare in quanto mi ha visto inconsapevole protagonista, l’abbiamo già vista e rivista. Per carità, anche io riconosco le mie colpe, ma sbagliare è umano, certo, ma perseverare no, è diabolico.

A ciò si aggiunga che a livello regionale e nazionale tale nascente sovrastruttura in pieno stile non profit (di qui l’originale convocazione di un congresso politico in seconda), potrebbe essere utilizzata a fini di puro collateralismo politico all’interno del centro sinistra e del Partito democratico in particolare, anche nella prospettiva di una o più presenze federaliste alle prossimi scadenze elettorali. Interessi e protagonisti non lasciano presagire altro. Tentativo legittimo, ci mancherebbe, ma che avendo già fallito nel passato non potrà che trovare la mia ferma e decisa opposizione all’interno del nostro Movimento. Mi si potrà obiettare che sto pensando male, certo, potrei anche sbagliarmi . Anzi, spero vivamente che le mie siano preoccupazioni infondate. Ma come ci ricordava spesso il divo Giulio, a pensar male si commette peccato, ma quasi sempre ci si azzecca. Ed io sono, notoriamente, un incallito peccatore.

Nella speranza che i lavori del congresso del MFE Lazio possano svolgersi illuminati dalla mite saggezza dei vecchi e dalla incorrotta volontà dei giovani, un caro saluto e a presto.

Nicola Forlani

domenica 1 maggio 2011

Lettera al segretario del MFE, Franco Spoltore

Caro Franco,

in vista degli adempimenti previsti in occasione del prossimo comitato centrale, credo sia opportuno rendere pubblica la mia intenzione di non essere più presente all'interno della Direzione nazionale. Già ben prima del Congresso di Gorizia avevo accennato della cosa ad alcuni amici federalisti. Sono convinto che anche tu concorderai con l'opportunità del mio proposito.

A giustificazione di ciò potrei portare le difficoltà oggettive che avrò nei prossimi mesi per poter dedicare tempo nelle trasferte milanesi. Per certo sarò molto impegnato tanto sul piano familiare, che su quello professionale ed amministrativo, senza tralasciare un nuovo fronte di impegno umano nel volontariato sociale, che ho intrapreso da alcuni anni, e che mi sta sempre più assorbendo. Tutto ciò sarà pur vero, ma quando si fa trenta è sempre possibile far trentuno. Vedrai che a qualche "zingarata meneghina" non mancherò di certo.

Per venire al concreto, credo si sia esaurita una fase del mio impegno militante. Per tanti anni ho dovuto fronteggiare, quale esponete di Alternativa europea, tanto gli organi istituzionali, prima l'Ufficio del Dibattito e poi la Direzione (a cui in verità avevo già preso parte nei primi anni novanta). Non di rado mi sono sobbarcato doppi viaggi nelle terre padane, anche a distanza di pochi giorni, per raggiungere prima gli amici in Direzione e poi i militanti di AE a Pavia, Milano e dintorni. Non so se abbia agito sempre per il meglio, ma sono certo che se siamo giunti alla "Svolta di Gorizia" - un sorta di ritorno al futuro per un militante ormai organicamente albertiniano, quale io mi considero - ci sia anche il mio piccolo granellino di sabbia, e questo mi basta.

In secondo luogo, sono convinto che l'esempio sia sempre la migliore forma di comunicazione. Nel Movimento non ci sono cariche e potere a cui ambire, ma solo responsabilità che, se, quando e nel caso, doversi assumere. Se è questo l'assunto in cui realmente crediamo non bisogna mai aver timore di abbandonare gli incarichi e, con essi, il profilo del proprio contributo. Per alcuni anni, dopo il Congresso di Salerno, non mi sono neanche ripresentato per il Comitato Centrale, per l'intimo bisogno che avvertivo di respirare aria nuova.

Tutto ciò non vuol certo dire che intenda ridurre, o peggio, abbandonare il mio impegno militante, anzi. L'intenzione è proprio quella opposta. Ho la necessità di sentirmi libero di poter incrociare le vele del mio vascello nei freschi zefiri del mare aperto, lavorando sul campo nelle nuove attività che dovremmo iniziare da qui a pochi mesi. E' necessario che abbandoni le estenuanti bonacce di un perdurante, e per molti versi ormai stucchevole, confronto congressuale che alcuni si ostinano a voler continuare a tenere aperto. E' un piano su cui, ti confesso, non trovo proprio più alcun interesse o stimolo.

Con Gorizia si è chiusa una fase nella vita delle nostra organizzazione in cui alcuni di noi hanno creduto di poter dar vita ad un modello di Movimento che potesse superare quello autonomista di Mario Albertini. Va da se che è legittimo, anzi auspicabile, quando si sia mossi dalla sincera convinzione delle bontà dei proprio propositi, sostenere e percorrere nuove strade. Ma quando queste risultano dei vicoli ciechi è bene, prontamente, cambiare rotta.

E' evidente che quanto avvenuto nel MFE è conseguenza diretta anche del quadro politico generale. Oggettivamente, la sbornia costituzional/gaudente aveva fortissimi elementi attrattivi. Vuoi per una sorta di malcelato conformismo, vuoi per una tendenza tipica dell'animo umano che fa sempre fatica a distinguere se stesso dal branco dei proprio simili, vuoi per un indebolimento dell'aspetto identitario del federalismo organizzato, sta di fatto che gli anni dell'illusionismo convenzionale hanno fatto breccia anche nelle nostre fila. Si è creduto di poter fondare una nuova realtà non-stato puntato sulla semplice adozione di un terminologia a cui non corrispondeva una reale e concreta capacità di azione in termini di potere.

I risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti. L'impotenza dell'Europa, a cui anche in questi giorni stiamo tristemente assistendo in relazione all'intervento militare in Libia, da il pari con l'impotenza di chi crede che questa possa farsi nell'equivoco lessicale. Un'impotenza che sta dando la stura anche ad una sempre più evidente crisi del consenso intorno al processo di unificazione; crisi che non si può liquidare erigendo linee a difesa dello status quo, pena essere travolti, come fuscelli dallo tsunami del nuovo ordine mondiale.

Dalla nascita della Ceca e sino all'Unione di Maastricht, il modello funzionalista, seppur deficitario dal punto di vista democratico, era il vero motore del processo di integrazione comunitaria; un modello che mostra sempre più evidenti segni di cedimento strutturale. Il metodo comunitario ha funzionato per anni basandosi sull'assunto che venivano trasferite competenze ad un livello sovranazionale, prendendo per buona anche la scarsa democraticità del sistema stesso, solo nella misura in cui i vantaggi per i cittadini emergevano con chiarezza ed erano facilmente misurabili, anche in termini di sviluppo economico. Venendo sempre meno evidenti i vantaggi ed aumentando i temi non risolti, si palesa la sotto struttura intimamente tecnocratica del metodo stesso, ed il conseguente elemento di privilegio di chi la incarna, volente o nolente.

Il consenso ha, sotto questo profilo, ben poco a che fare con la comunicazione, anzi. Una buona comunicazione può funzionare solo e nella misura in cui cui il "prodotto istituzionale" da promuovere, oggettivamente, risponde a bisogni economici, sociali e culturali della popolazione. In caso contrario, produce solo effetti diametralmente opposti. L'assunto che oggi l'Europa si occupa di tutto un po', tranne che dell'essenziale è sempre più percepibile dal cittadino medio. A nulla vale difendersi evidenziando le acquisizioni ormai storicamente consolidate del processo di integrazione (mercato unico, euro, libera circolazione, ecc.). I reali problemi che oggi la società europea sta vivendo (crisi economica, deterioramento del modello sociale, invecchiamento demografico, perdita di competitività) sono sempre più drammaticamente evidenti e di certo non possono trovare soluzione nelle pieghe del Trattato di Lisbona.

Ma vedo che mi sono dilungato ben oltre l'oggetto della mia missiva. Avremo tempo e modo per tornare a confrontarci su questi temi. Per intanto un caro saluto a te e agli amici delle lista del Comitato centrale che hanno avuto la bontà di leggerci in copia.

Nicola Forlani

martedì 12 ottobre 2010

Appello dei federalisti europei a Pierluigi Bersani, segretario del Partito Democratico

"Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori
nei quali noi abbiamo creduto… Abbiano coscienza dei loro doveri
verso se stessi, verso la famiglia…, verso il paese,
si chiami Italia o si chiami Europa"
Giorgio Ambrosoli a sua moglie Annalori



Caro Segretario,


Come militanti del Movimento federalista europeo, fondato da Altiero Spinelli, e politicamente vicini al Partito democratico, guardiamo con preoccupazione all'incertezza sempre più evidente, denunciata ormai anche dalla stampa, riguardante l'identità culturale e il radicamento storico di un partito che intende perpetuare e rilanciare i valori del patto costituzionale con cui è nata la nostra Repubblica, raccogliendo attorno a questo obiettivo il maggior numero possibile di elettori. Il Pd non sembra infatti riflettere adeguatamente - anche se recenti iniziative appaiono come primi segnali di ripresa - né sul progetto che esso intende proporre per affermare la propria leadership, né sull'eredità politico-culturale di cui dovrebbero essere portatrici le sue componenti.

Come è noto, il Pd è nato nell'ottobre 2007 quale entità nuova, e dunque mirante a introdurre un fattore di trasformazione nel quadro politico nazionale, in parte in risposta all'affermarsi della cosiddetta seconda Repubblica e in parte per
completare il processo di adeguamento al venir meno delle contrapposizioni della guerra fredda, a seguito del tracollo del comunismo.

Il nuovo partito, richiamandosi a esperienze e modelli statunitensi e perpetuando al tempo stesso concetti di democrazia condivisi sia dagli eredi della Democrazia cristiana più sensibili alle istanze sociali, sia dalla cosiddetta democrazia laica e sia ancora dagli ex dirigenti e militanti del Partito comunista italiano, considerato nella sua originalità e specificità rispetto al regime sovietico, intendeva unire in un solo soggetto politico le forze convintamente eredi della Resistenza e dell'antifascismo per contrapporle più efficacemente ad uno schieramento moderato sostanzialmente populistico e ideologicamente composito, raccoltosi sotto la guida di un imprenditore fattosi uomo di Stato per un grumo di interessi decisamente lontani da quello collettivo.

Tale lungimirante disegno, maturato sulla felice esperienza di un dialogo fra laici e credenti impegnati politicamente in una delle realtà più significanti dell'Italia postbellica, introduceva sicuramente un fattore di chiarezza, di tutela dei principi di legalità e di coerente spinta riformatrice nel quadro politico, proponendosi in primo luogo di adeguare, nel rigoroso rispetto della Costituzione, gli schemi dell'esercizio del potere e della rappresentanza a quelli dei paesi occidentali di più sicura tradizione democratica, tutelando al tempo stesso le fasce meno favorite della popolazione, insieme ai valori egualitari radicati nella cultura dei partiti popolari.

Sulla base di tale impostazione ed affidandosi alle personalità culturalmente più partecipi di tale visione, non a caso ampiamente eredi delle concezioni di Altiero Spinelli, il Pd puntava nel concreto a garantire una seria e affidabile gestione di governo, seppur contrastata sia dal frammentario rivendicazionismo di residuali aggregazioni partitiche della sinistra, sia dalle persistenti conflittualità interne, dovute, oltre che a rivalità personali, alla incompleta conciliazione delle componenti che avevano dato vita al nuovo partito.

Per la verità, un'inadeguatezza di fondo risiedeva nel progetto politico stesso del Pd ove questo, nel dichiararsi forza alternativa allo schieramento promotore della seconda Repubblica, finiva per accreditare quest'ultimo come legittimo antagonista democratico, quando invece nella discesa in campo del cavaliere di Arcore emergevano da sempre elementi inaccettabili di distorsione dei principi, dei valori e della legalità dello Stato nato dalla costituzione repubblicana, dai quali elementi sarebbe stato indispensabile prima o poi liberarsi.

A ben vedere, il Partito democratico era chiamato a proporsi piuttosto come fattore di aggregazione di tutti gli eredi della Costituzione quarantottesca che non di cristallizzazione della contrapposizione fra due compagini, di cui una non risultava pienamente compatibile con lo spirito e i precetti della carta fondativa della Repubblica. Mancava infatti quell'idem sentire della cosa pubblica su cui, indipendentemente dalle differenziazioni partitiche, si fonda una statualità legittima e condivisa. Del resto, sarebbero stati i fatti, anche recenti, a dimostrare sia la necessità per il Pd di aggregare forze diverse purché animate da quell'idem sentire di fondo, sia l'opportunità che a porsi alla guida dello stesso schieramento moderato, convergendo verso il centro, siano elementi compatibili con le tradizioni repubblicane postbelliche, foss'anche separandosi nel tempo dal Partito democratico, che al processo di riaffermazione dei valori fondanti dell'Italia nata dall'antifascismo ha dato insostituibile impulso.

Purtroppo, a tale vocazione, ossia a farsi centro propulsivo del pieno adeguamento della democrazia italiana ai modelli occidentali di funzionamento - nel saldo contesto della carta costituzionale, vero atto di rifondazione dello stato italiano dopo la tragedia del fascismo - il Partito democratico, una volta estromesso (estromessosi?) dal governo, ha finito per rinunciare in misura via via crescente (salvo le recenti, incoraggianti iniziative ricordate in esordio, peraltro ancora incentrate su alleanze, schieramenti e riforma elettorale, piuttosto che su programmi e temi identitari).

Alla visione strategica si sono infatti man mano sostituiti: vuoi una politica del giorno per giorno, mirante ad assecondare gli occasionali orientamenti dell'elettorato, spesso valutati con logiche televisive e demoscopiche; vuoi l'aspirazione - peraltro non priva di giustificazioni, seppure, allo stato, non troppo pagante - a riavvicinarsi alle dinamiche europee di contrapposizione fra socialdemocrazia e conservatorismo liberal-liberistico; vuoi ancora il desiderio dei singoli leader del Pd di perpetuare le proprie posizioni di potere (tradizioni politico-culturali, elettorati consolidati, reti di sezioni e relative infrastrutture, realtà economiche collegate). E questo anche a costo di rilegittimare la dirigenza avversaria, rientrata ai posti di comando, ovvero di mettere ai margini ampie componenti dell'elettorato, indispensabili al raggiungimento della maggioranza del consenso, che era poi l'obiettivo originario su cui era stato costituito il partito stesso.

L'esempio e il messaggio di Altiero Spinelli. Una risorsa fondamentale

Oggettivamente, tra le ragioni di questa inadeguatezza di concezioni e progetti sta per molti aspetti la mancata attuazione di un completo ripensamento della propria storia da parte della componente ex comunista del Partito democratico, la quale ha finito per perpetuare l'antica renitenza ad una radicale revisione ideologica - da accompagnare all'elaborazione di un nuovo manifesto fondativo - già evidente nell'epoca di Enrico Berlinguer, malgrado la sostanziale adesione del partito alla democrazia repubblicana e gli orientamenti assunti dall'allora segretario del Pci. Una renitenza palesemente confermatasi allorché si preferì attendere il crollo del comunismo sovietico prima che il Partito mutasse il proprio nome. Tutt'oggi si può constatare una ritrosia a prendere le distanze in modo circostanziato dagli errori ripetuti fin troppo a lungo, sia in termini di adesione al comunismo in sé, sia di scelte politiche di fondo, fra cui, determinanti, non solo l'opposizione alle Comunità europee anni Cinquanta, ma anche al Sistema monetario europeo, alla fine degli anni Settanta, che avrebbe estromesso per lungo tempo il partito dalla gestione della politica italiana.

Allo stato dei fatti, un pur comprensibile senso di fedeltà alla propria militanza, la consapevolezza dei sacrifici compiuti e del contributo nel complesso offerto alla democrazia italiana, la resistenza psicologica a dissolvere il proprio patrimonio organizzativo e di dotazioni, un qualche grado di settarismo hanno contraddittoriamente concorso ad impedire l'elaborazione di un rinnovato progetto politico a carattere generale, in grado, tra l'altro, di valorizzare anche le tradizioni del socialismo democratico e riformista italiano, eredi della prima e della seconda Internazionale, che non possono essere dimenticate o cancellate dalla memoria del movimento progressista italiano. Appare davvero sconcertante, infatti, che grandi figure emblematiche, a partire da Garibaldi stesso, presidente del Congresso della pace, dei diritti dell'uomo e della federazione europea, riunitosi a Ginevra nel 1867, a Filippo Turati, a Giuseppe E. Modigliani, a Claudio Treves, a Eugenio Colorni, a Carlo Rosselli, a Pietro Nenni stesso e tanti altri risultino del tutto ignorate. E altrettanto può dirsi del pensiero laico e democratico, interpretato da Giuseppe Mazzini a Carlo Cattaneo, da Gaetano Salvemini a Francesco Saverio Nitti, da Ernesto Rossi a Ugo La Malfa e molti ancora, ai quali non viene tributato il dovuto riconoscimento. Eppure, senza una storia onorata e condivisa nessuna forza politica e nessuno stato può dirsi realmente tale.

Purtroppo, ciò che oggi emerge dal Pd è l'acrobatica conciliazione fra: a) le reticenze ex comuniste, che finiscono per creare il vuoto nel proprio passato, limitandosi al massimo a rivolgere seminascosti tributi di fedeltà a figure come quella di Togliatti, ovvero a inserire nel calderone dei propri riferimenti (vedasi un recente manifesto con cento santini) le personalità più diverse, da De Gasperi a Kennedy, a Gandhi, ma non, per dire, Spinelli o Colorni, ovvero ancora ad appropriarsi di mitologie mass-mediatiche di ascendenza democratico-statunitense, che avrebbero da sempre fatto premio, almeno fra i giovani della generazione postbellica, sulla venerazione dell'empireo stalinistico-sovietico; b) la crescente marginalità di ex democristiani di sinistra e di cattolici impegnati, convinti di condividere con gli antichi avversari - in fondo sempre ammirati, ma di fatto ampiamente estranei per formazione, esperienze, memorie, organizzazione - il senso di dedizione alla causa democratica, repubblicana e social-popolare; c) il protagonismo di chi rimane attaccato alla difesa della tenace tradizione reticente e del "patrimonio" accumulato nel tempo, a sua volta insidiato da chi invece preferirebbe una piena conversione al modello di partito democratico e di alternanza di fattezza statunitense, senza troppo riflettere sul proprio passato e senza troppo indagare sulla natura, che verrebbe da motteggiare senza molta esagerazione come demago-pluto-escortaico-mafionica, non meno che clerico-affaristico-mediasettica, dei propri principali antagonisti; d) l'aspirazione, in sé positiva, ma che rischia il giovanilismo, a rinnovare dirigenti e parole d'ordine puntando sul semplice rinnovamento anagrafico come generatore di superamento delle antiche cristallizzazioni e di più vasto consenso da parte del grande pubblico, malgrado il generale invecchiamento della popolazione e di riflesso dei cittadini votanti.

Ora, a noi sembra che la ricerca di un progetto generale e al tempo stesso l'affermazione di un radicamento storico della tradizione democratico-costituzionale nel nostro paese, che restano essenziali per emanciparsi dalla società dell'effimero e confrontarsi con le enormi urgenze del presente, vada effettuata in primo luogo attraverso la piena assimilazione tanto della proposta politico-culturale di Altiero Spinelli - la costruzione della federazione democratica europea (e dell'Italia europea in essa) - quanto della sua esperienza di militante, vissuta da precursore all'interno della vicenda storica dei movimenti popolari e antifascisti.

Giovane dirigente comunista incarcerato dal regime già nel '27 e mantenuto in reclusione fino al '43, il futuro protagonista del primo parlamento europeo eletto a suffragio universale nel 1979 avrebbe maturato in carcere una profonda revisione dei fondamenti del marxismo e del comunismo per giungere a proporre, nell'ormai celebre Manifesto di Ventotene, scritto in sostanziale contrappunto con il Manifesto del 1848, la sostituzione del principio della lotta di classe con quello del superamento della sovranità assoluta degli stati e dell'instaurazione, con metodo costituente, della democrazia federale europea. Tale soluzione sarebbe stata in grado, come effettivamente dimostrato dall'esperienza storica, peraltro ancora in corso, di garantire la pace permanente, la libertà, lo sviluppo e il benessere dei lavoratori in maniera incomparabilmente maggiore rispetto al cosiddetto socialismo reale, o regime comunista che si voglia definirlo.

Senza entrare in mille dettagli, la partecipazione di Spinelli alla Resistenza europea, la fondazione, nell'agosto del '43, del Movimento federalista europeo assieme a personalità di altissima levatura dell'antifascismo, la sua decisa scelta di campo occidentale (ma sempre contraria ad eventuali progetti egemonici statunitensi) durante la guerra fredda, la sua dedizione infaticabile alla causa della federazione democratica europea, nonché - fatto notevole per tutta Europa, concordato con Enrico Berlinguer su proposta di Giorgio Amendola - la sua elezione come indipendente nelle liste del Pci, tanto a Roma e che a Strasburgo (con l'obiettivo di trasformare l'assemblea europea in una costituente, ma al tempo stesso di mettere al servizio della causa dell'Europa federale la notoria, innegabile dedizione dei comunisti italiani), descrivono un arco politico ed esistenziale esemplare. Una mirabile e sicura traiettoria che conferma la sussistenza di un filo conduttore virtuoso, sia pure con ritardi e consapevolezze diverse, all'interno del movimento operaio e democratico italiano, di cui non si può e non si deve restare dimentichi.

Non solo, giacché l'impegno per la creazione di istituzioni democratiche europee, con l'Italia in posizione trainante, ha costituito uno dei più importanti fattori di dialogo e di condivisione di obiettivi generali - si pensi alla collaborazione di Spinelli con De Gasperi, con Nenni, con Berlinguer - fra elementi di primo piano delle diverse forze politiche eredi della Resistenza. Tanto che si può affermare che il Partito democratico costituisca oggi il punto di riferimento e di incontro più naturale per chi provenga da quella storia e da quel comune sentire del futuro del proprio popolo, di tutti i popoli europei e del mondo intero, in vista del progresso della umanità e della persona, dell'uguaglianza e della pace, che costituisce la comune sostanza valoriale dei movimenti popolari del nostro paese e non solo di esso.

Nessuna società politica democratica, del resto, può vivere sulla semplice gestione dell'esistente, o sull'appagamento di occasionali istanze dell'elettorato, rinunciando a proporsi una pur sobria missione di carattere generale, che costituisca un bene, un fattore di progresso, per l'intero consorzio umano. Per il Manifesto di Ventotene, scritto insieme a Ernesto Rossi e in collaborazione con Eugenio Colorni - e non a caso instancabilmente valorizzato dall'attuale presidente della Repubblica - la federazione democratica europea costituisce infatti, in primo luogo ed eminentemente, un traguardo di superiore civiltà nella storia del mondo.

Ad onor del vero, va anche osservato che nell'ultimo Spinelli, il quale aveva pur difeso a spada tratta la validità e l'affidabilità della scelta europea del Pci, era subentrato nei confronti di quest'ultimo un senso di delusione per l'insufficienza dell'apporto fornito all'iniziativa costituente lanciata dal nostro "Ulisse" (questo il suo significativo nome di battaglia, tra omerico e dantesco) e mirante all'instaurazione di una completa Unione europea, poi parzialmente istituita con il trattato di Maastricht. Colui che in sede europea viene ufficialmente annoverato fra i Padri dell'Europa lamentava che il Pci inclinasse semmai ad un proprio cauto inserimento nella "normalità" della socialdemocrazia europea, piuttosto che ad abbracciare decisamente la concezione federalista, ovvero quel pensiero politico compiuto elaborato a Ventotene in alternativa al marxismo e reputato in grado di produrre effetti ben più concretamente rivoluzionari di esso.

Sarà stata pure un'ingenuità dell'antico dirigente della Fgci formatosi alla scuola leninista, ma a suo avviso il Pci non riusciva a capire di dover finalmente dedicare le sue energie alla nuova causa, profeticamente individuata da un comunista come lui già negli anni più duri del fascismo e reputata tale da dover divenire obiettivo politico primario di un movimento politico pienamente democratico: un movimento desideroso, beninteso, non già di adattarsi al "gioco" dell'alternanza in un contesto nazionale statico, bensì di dar vita al salto di civiltà, all'innovazione qualitativamente decisiva cui si è accennato poco più sopra. Il Pci continuava invece a oscillare ossessivamente fra passato e presente, fra Est e Ovest, fra realtà concreta e mitologie, fra sentirsi dentro e sentirsi fuori, abdicando al dovere di darsi una visione generale e un progetto politico di adeguato respiro.

Personalmente restiamo convinti che la "provocazione" di Spinelli, pur venata di un certo solipsismo proprio dei precursori, resti oggi più attuale che mai, soprattutto tenendo conto che nell'attuale fase di implosione-decostruzione del sistema politico della cosiddetta seconda Repubblica il Partito democratico, insieme alle forze politiche legate all'eredità costituzionale, è chiamato precisamente a proporsi un disegno politico di grande portata e non soltanto a prospettare una normale alternanza, in vista della soluzione di singoli problemi affrontabili nello spazio di una legislatura.

Un patto con gli europei

Ebbene, tale disegno politico complessivo si incentra proprio sul compimento del progetto di unificazione federale dell'Europa da parte dei paesi e delle forze politiche disposti a dar rappresentanza e istituzioni al popolo costituzionale europeo. E questo non già o non soltanto per la suggestione dell'obiettivo in sé, oggettivamente virtuoso e affascinante, bensì anche per la consapevolezza, tutta spinelliana, ma radicata già nel Risorgimento, dell'identificazione fra interesse nazionale italiano ed edificazione della democrazia federale europea, nonché della vocazione italiana ad esercitare un ruolo di mediazione e di impulso in tale direzione.

Anche le recenti vicende della crisi finanziaria internazionale dimostrano quanto abbia giovato alla solidità economica del nostro paese la sussistenza di un quadro istituzionale europeo, mentre la pressione della globalizzazione sui sistemi produttivi lascia temere un inasprimento delle condizioni dei lavoratori, ove non sussista un'adeguata area di statualità in grado di tutelare i settori più minacciati della società, assicurando al tempo stesso alle imprese l'efficienza complessiva dell'ambiente in cui effettuano gli investimenti, al fine di controbilanciare i vantaggi delle delocalizzazioni e fronteggiare la concorrenza internazionale. Non meno importante è promuovere tale area di statualità per evitare, come già succede nel nostro paese, che le vere o presunte esigenze della competizione internazionale impongano un'egemonia dei venditori-produttori sui consumatori-lavoratori tale da protrarre eccessivamente la giornata lavorativa o penalizzare la natalità e le famiglie, abbassando i salari dei giovani e la protezione sociale, nonché addirittura minacciando di licenziamento le donne in maternità.

Ora, che questi obiettivi siano perseguibili in un quadro puramente nazionale è illusione denunciata da tempo ed evidente ai più, al di là della constatazione che i maggiori paesi europei sono riusciti a tutelarsi parzialmente dagli effetti socialmente devastanti della globalizzazione. Costoro riescono a difendersi meglio degli altri grazie alla loro condizione di forza relativa ed anche alla sussistenza di un mercato unico europeo considerato spesso come "giardino di casa", ma non certo perché possano permettersi di aspirare ad un ritorno alla sovranità assoluta, come dimostrano anche le recenti concessioni in vista della creazione di un sistema europeo di gestione-controllo della finanza e dell'economia, a dispetto di iniziali affermazioni contrarie, pronunciate all'insegna del virtuosismo nazionale.

Altrettanto evidente risulta dunque il fatto che il nostro paese, certo non privo di elementi di debolezza strutturale, potrà garantirsi da nuove e forse più imponenti crisi economico-finanziarie, oltre che da attacchi allo stato sociale, solo se l'Unione europea - o almeno il suo nucleo più coerente, di cui l'Italia deve essere assolutamente partecipe - sarà in grado di proseguire verso una reale unione economica, da affiancare a quella monetaria, che sia dotata degli strumenti politico-istituzionali non soltanto di difesa dell'esistente, ma anche di rilancio degli investimenti, della ricerca e delle innovazioni tecnologiche. Una Unione, in altre parole, abilitata ad esercitare un ruolo attivo nei settori strategici, se non a proporre un modello di società della conoscenza, della produzione diffusa, della tutela della persona, da imitare nel contesto internazionale.

Per ottenere questo, tuttavia, vale a dire perché sia possibile stringere un patto di natura federale fra i contraenti, è assolutamente indispensabile che sussista non soltanto la determinazione di forze politiche consapevoli e all'altezza del compito, ma anche un rapporto di fiducia fra i detti contraenti, un foedus fondato sul rispetto rigoroso della legalità, delle regole stabilite e delle procedure concordate, oltre che sulla condivisione delle concezioni della democrazia. Altrettanto evidente risulta a tale riguardo che l'Italia berlusconiana, rivelatasi ogni giorno di più nella sua natura tanto affaristico-illegale quanto inquinata da insopportabili conflitti di interesse e da insidie al potere costituzionale della magistratura, se non alla Costituzione in sé, non risponde alle esigenze elementari in base alle quali i potenziali, indispensabili partner del processo federale siano disponibili a cedere ulteriori poteri sovrani ad istituzioni comuni. Anzi, ne costituisce un oggettivo, rilevantissimo impedimento.

Il che, pur tenendo conto degli immancabili egoismi particolaristici di ogni società nazionale, risulta comprensibile e giustificato: l'eventuale sensazione di un peggioramento delle condizioni di legalità del sistema democratico, a questo punto divenuto largamente federale, e pertanto meno controllabile da un singolo paese, indurrebbe una crescente disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni dell'Unione e della democrazia in quanto tale, con effetti che la nostra quotidiana esperienza percepisce ormai, nel nostro ambito, come inaccettabili e devastanti.

L'Europa, quindi, non può più valere per il nostro paese come puro condizionamento esterno, in grado di indurre comportamenti virtuosi all'interno. Al contrario deve trasformarsi nell'impegno attivo e propositivo, in forza del quale il quadro nazionale viene parallelamente e consapevolmente trasformato in fattore esemplarmente trainante della comune costruzione, oggi sempre più necessaria per poter agire come interlocutori del resto del mondo.

Si può peraltro riconoscere che l'attuale gestione della finanza pubblica italiana, con il presumibile concorso della Lega, abbia evitato la degenerazione dei conti del paese che si era profilata invece nei precedenti governi della destra, quando l'euro e l'Europa stessa venivano denigrati e additati come la causa dei mali socio-economici. Tuttavia l'esercizio del rigore, stante l'impossibilità, in regime di euro (ovvero di condizionamento esterno), di interventi a carattere inflazionistico ai fini di riequilibrio delle partite di bilancio in funzione dell'occupazione o degli investimenti, è stato sostanzialmente eseguito mediante tagli alla spesa spesso e volentieri a carico dei settori maggiormente trainanti e produttivi, piuttosto che con una dolorosa azione di trasferimento di risorse da settori parassitari a produttivi. Né di certo è stato perseguito un implacabile, ma al tempo stesso accorto, contenimento dell'evasione fiscale, o si è proceduto alla liberalizzazione (non dimentichiamo certo in proposito il cosiddetto "pacchetto Bersani") di ambiti protetti da legislazioni corporative. Un'azione questa che è stata compiuta invece da altri paesi - in primis nel campo fondamentale del rifinanziamento dell'istruzione e della ricerca, malgrado la crisi - e che risulterebbe oltretutto meno onerosa se svolta in un contesto di rilancio degli investimenti a livello dell'Unione.

Si impone in sostanza, da parte del nostro paese, l'urgenza di un "patto con gli europei", grazie al quale il progresso dell'integrazione verrebbe scambiato con: a) un coraggioso riassetto della finanza pubblica, unito al rilancio della produttività e degli investimenti; b) un impegno ferreo a emendare la penisola dalle note deficienze organizzative e dagli aspetti inaccettabili di illegalità e criminalità - ivi compresa la presenza di pregiudicati e indagati, talvolta addirittura per mafia, nel parlamento, o nel governo - che ancora impediscono alla società italiana di essere accolta a pieno titolo nell'avanguardia del mondo occidentale e di trarne i vantaggi conseguenti, per sé e per gli altri paesi dell'Unione.

A fronte dell'attuale continuo, autolesionistico e introflesso battibecco personalistico tra le forze politiche nazionali, tale impegno di riscatto nazionale, di natura risorgimentale e neoresistenziale, compiuto nella coincidenza dei 150 anni dell'unità d'Italia e offerto all'intera Europa, appare l'unico in grado di conferire al soggetto politico che intenda proporlo e perseguirlo l'autorevolezza e la giustificazione per agire con determinazione assoluta sulle attuali manchevolezze del paese, in vista del compimento della costruzione della democrazia italiana nel momento stesso in cui essa si rende protagonista dell'indispensabile raggiungimento dell'unità politica europea. L'esperienza dimostra del resto come gli italiani, a suo tempo chiamati a corrispondere la cosiddetta tassa per l'Europa pur di aderire alla moneta unica, siano disponibili ai sacrifici e al disinteresse, ove collocati in una prospettiva generosa e sanamente patriottica.

Ma tutto ciò è solo un lato della medaglia. L'altro aspetto, più lusinghiero e incoraggiante, è che i dirigenti del nostro paese, nei decenni del dopoguerra, hanno saputo svolgere un accorto lavoro di promozione della costruzione europea e di mediazione fra gli interlocutori maggiori, rivelatosi in numerose occasioni come indispensabile e decisivo. Si pensi per esempio, al di là del ricordato contributo di Spinelli, alla lontana conferenza di Messina del 1955, o alla determinazione con cui i governi sottoscrissero i trattati comunitari malgrado le opposizioni degli ambienti economico-industriali, o al Consiglio Europeo di Milano del giugno 1985, o alle vicende del trattato di Unione politica e di Unione economico-monetaria (trattato di Maastricht) e si avrà la conferma di tale preziosissimo apporto, volentieri riconosciuto anche in sede europea.

Per ottenere tali risultati, tuttavia, era indispensabile una profonda conoscenza dei principi, dei meccanismi e delle logiche della costruzione europea, laddove oggi sussiste una profonda indifferenza verso tali aspetti, come si può constatare dall'assenza di riferimenti alla Ue (con cui pure condividiamo una moneta e un mercato unico e tanto altro ancora) negli interventi programmatici, anche recentissimi, di tanti leader politici; dai marchiani errori comparsi sulla più accreditata stampa nazionale in tema di Unione europea, ripetutamente confusa con il Consiglio d'Europa; o dall'assenza di un dibattito realistico su tematiche capitali come gli effetti dell'allargamento dell'Ue. Soltanto a titolo di esempio, si dibatte all'infinito, seppur confusamente, sul federalismo interno, con relative minacce di separatismo, ignorando che nel frattempo la moltiplicazione di stati presunti sovrani - argomento fin troppo spinelliano - nei Balcani o altrove finisce per deformare sempre di più gli assetti istituzionali dell'Unione, creando uno squilibrio insidiosissimo fra Europa reale ed Europa formale.

Se non fosse stato per l'allarme lanciato dalla corte costituzionale tedesca (e ignorato in Italia) in occasione della ratifica del trattato di Lisbona, chi si sarebbe accorto che il peso specifico del voto di un cittadino italiano o tedesco per il Parlamento europeo vale incredibilmente meno di quello di recenti adepti all'Ue, peraltro prossimi ad essere raggiunti, con ulteriore inaccettabile deformazione, da un vero polverio di altre nazionalità? E non è questa una necessaria, indispensabile riflessione a tutela dei legittimi interessi nazionali, oltre che dell'irrinunciabile principio democratico "one man, one vote"? O si preferisce continuare con il principio "tanti stati, tanti posti di comando", al punto che quasi quasi converrebbe a tutti che la Padania, o il Mezzogiorno, o tutte le regioni del Belpaese diventassero indipendenti? Per lo meno, i posti riservati agli italiani si moltiplicherebbero, insieme al diritto di veto su questioni fondamentali dell'Unione, tuttora concesso dal trattato di Lisbona ai singoli stati e staterelli.

Insomma, a volersene rendere conto, e a parlarne nei programmi politici, forse l'occasione per un serio dibattito sulla centralità della questione Europa e per vigorose iniziative politiche al riguardo ci starebbe sicuramente, magari anche chiedendo notizie sul funzionamento della nuovissima struttura della politica estera europea e del ruolo italiano in essa, che risulta evidentemente meno avvincente (provincialismo?, sì, come minimo) rispetto a qualunque minuzia della cronaca politica interna .

In breve, i temi così prospettati e le esigenze generali della società italiana, componente del nucleo fondante dell'Unione europea, richiedono l'emergere di una forza politica determinata a non fare del consenso di breve periodo il primo dei propri obiettivi, in vista dell'occupazione del potere e del sottopotere, bensì a proporsi come fautrice di trasformazioni di lungo periodo e di illuminata emancipazione sociale e culturale, come è proprio dell'identità migliore e più profonda di tutti i movimenti popolari di ispirazione democratica.

Non c'è dubbio che le violenze epocali della storia novecentesca, teatro delle ambizioni aggressive delle statualità nazionali, abbiano indotto anche nel movimento operaio reazioni eccessive e totalitarie, inasprendo gli animi delle masse e suggerendo soluzioni implacabili come risposta inevitabile alle conflittualità perseguite da governi che non esitavano a sacrificare milioni di vite umane per i propri disegni egemonici. Oggi è tuttavia venuto il momento di guardare con serenità ed anche spirito di autocritica a quanto accaduto, valorizzando al tempo stesso il patrimonio di sacrifici, valori, elaborazioni intellettuali, spirito di pace e tensioni di emancipazione espressi dai movimenti democratici, proponendo ai giovani e a tutta l'opinione pubblica l'indispensabilità di una visione di progresso universale che per tanti aspetti passa più che mai per le prospettive indicate dal precursore Spinelli, uno Spinelli per parte sua sempre disponibile alla collaborazione con l'antifascismo laico e i cattolici "adulti", cui tanto si deve nella vicenda democratica del nostro paese.

Tale progetto deve essere perseguito in maniera realistica e concreta, affermando, in primo luogo, la centralità della cultura, della scienza e della legalità all'interno di ogni reale azione di progresso, ma anche, aspetto non meno importante, valorizzando le pubbliche istituzioni (locali, nazionali e sovranazionali!), quali sedi di tutela dei diritti di cittadinanza (istruzione diffusa, lavoro, assistenza, previdenza), nonché di intervento per investimenti di interesse collettivo. Lo stato democratico, ai suoi diversi livelli, non va inteso infatti come apparato sovrastante la società, bensì come luogo di espressione della libertà e dello spirito di comunità. Tutti questi elementi costituiscono un requisito essenziale per assicurare gli effetti positivi stessi dell'economia di mercato e dell'iniziativa economica privata - ormai estesa all'intera dimensione mondiale - senza per questo subordinare l'uomo e la società alla ricerca del profitto come unico valore, al dominio straripante di gruppi monopolistici ed entità sovrane, alle discrezionalità incondizionate dei detentori del capitale.

Un programma per l'Italia europea

Su queste basi potrà pertanto essere elaborato un programma politico, impostato a nostro avviso sui seguenti punti prioritari.

Sul piano istituzionale europeo, è indispensabile promuovere, coinvolgendo università, studiosi, opinionisti, un'approfondita ricognizione sull'attuale assetto successivo a Lisbona, al fine di giungere ad una chiara definizione, in primo luogo sul piano dei principi giuridici, della natura di tale assetto, commisto com'è di elementi intergovernativi, funzionalisti e federalisti, e se esso possa essere accettabile nel lungo periodo, o necessiti sollecite riforme, in grado di assicurare una salda legittimità a esecutivo, legislativo e giudiziario in primo luogo. Che credibilità avrà, a titolo di esempio, una Corte di Giustizia formata da un giudice per ogni paese membro, al punto che fra breve la comparabilmente modesta realtà dell'Europa ex comunista vanterà una maggioranza di magistrati al suo interno? Approfondimenti da noi promossi hanno sottolineato la non sostenibilità della situazione. E non si corre il rischio, ancora, che il Consiglio rivendichi una maggiore legittimità democratica rispetto al Parlamento europeo, visto che il primo tutela il rapporto rappresentanza-popolazione meglio del secondo, pur escludendo dal proprio seno le opposizioni? Di sicuro il suo attuale presidente lo definisce già come il reale governo economico dell'Ue. In breve, continuare a compiacersi della pur arguta battuta per cui l'Ue sarebbe un ermafrodito, e come tale bisogna tenerselo, non convince più nemmeno gli autori di quel motto di spirito.

Si conferma insomma l'urgenza di una riflessione politica e giuridica adeguata, da compiere con il concorso di tutte le forze politiche e intellettuali dell'Ue, nel contesto di uno spazio pubblico europeo, che è finalmente ora di costruire con adeguati strumenti di dibattito, comunicazione e pubblicizzazione, grazie anche al ricorso alle nuove tecnologie.

Sul piano economico, solo una grande serietà e determinazione dei componenti l'Unione può consentire, in primo luogo, l'accreditamento della proposta avanzata dalla Commissione europea, e respinta dagli stati maggiori, in vista dell'aumento delle risorse proprie dell'Ue mediante l'introduzione di prelievi fiscali europei. Inoltre, un piano europeo di investimenti per rilanciare l’economia e favorire la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile può essere finanziato con l’emissione di Union bonds, come è stato più volte proposto in passato ed è stato di recente sostenuto anche dal Presidente Barroso nel suo Rapporto sullo stato dell’Unione. D’altra parte, anche la recente decisione di Ecofin di istituire una sessione di bilancio condensata nel semestre europeo, pur utile nella prospettiva di un miglior coordinamento delle politiche fiscali degli stati membri, non è certamente in grado di superare i limiti del metodo di coordinamento, già più volte verificati in passato. In effetti, in assenza di un potere europeo, ogni stato avrà comunque convenienza a comportarsi da free rider e il coordinamento sarà effettivo soltanto nella misura, del tutto ipotetica, in cui vi sarà convergenza delle ragion di stato - ovvero degli interessi - dei diversi paesi.

In generale, va rilevato che il deficit democratico dell’Europa ha pesanti riflessi sulla concreta possibilità di attuare in tempi ragionevoli una politica fiscale comune, mirante a fronteggiare situazioni caratterizzate da esigenze di immediatezza ed emergenza, tra cui il sostegno a competitività e sviluppo e il contrasto delle crisi economico-finanziarie. Specie dopo l’ultimo allargamento a 27 stati, è anacronistico che permanga la regola dell’unanimità in materia fiscale. Dieci anni or sono, paventandone le conseguenze, la Commissione propose l’introduzione del voto a maggioranza qualificata almeno per le materie concernenti la previdenza ed il fisco che avessero un impatto evidente sulla realizzazione del mercato unico, ma la proposta non è stata accolta né risulta che sia di nuovo all'esame.
Per questo motivo, le direttive europee in materia fiscale hanno tempi di gestazione che ne attenuano notevolmente l’efficacia. Basti pensare, soltanto per fare alcuni esempi, alla direttiva sulla tassazione dei redditi del risparmio (diretta ad armonizzarne il sistema di tassazione e a contrastare la consistente evasione transnazionale), che fu inserita nel cosiddetto “Pacchetto Monti” del 1996: varata soltanto nel 2003, contiene una serie di modifiche che ne hanno indebolito la portata, causa il compromesso imposto da una esigua minoranza di stati membri che l'avevano osteggiata, vedendo minacciati i propri interessi nazionali. Eppure Monti stesso, in anni ormai lontani, aveva messo in guardia contro gli effetti socialmente insidiosi della concorrenza fra gli stati, dediti ad attrarre capitali offrendo condizioni fiscalmente competitive: la retribuzione del lavoro, specialmente di quello meno qualificato, avrebbe raggiunto livelli inaccettabili. E si pensi anche alla proposta avanzata dalla Commissione per introdurre una Common Consolidated Corporate Tax Base (la cosiddetta CCCTB, diretta a creare un regime semplice ed uniforme di tassazione delle imprese che operano in ambito europeo), che risale al 2001 ed è tuttora in fase istruttoria nel tentativo di individuare una soluzione gradita alla totalità dei governi nazionali.

Nell’attesa della piena realizzazione dell’Europa federale, che risolverebbe in radice anche questo ordine di problemi, l’Italia dovrebbe farsi promotrice di una modifica dell’attuale sistema di voto delle norme (siano esse direttive o regolamenti) a contenuto fiscale, sostenendo l’esigenza di introdurre meccanismi basati sulla regola della maggioranza, qualificata dal riferimento al numero dei cittadini di ciascuno stato membro, che si avvicinino quanto più possibile al principio “one man – one vote”, assicurando almeno tendenzialmente il rispetto del fondamentale principio del consenso al tributo (“no taxation without representation”), pilastro di ogni democrazia degna di questo nome.

Altrettanto indispensabile risulta procedere ad una rivalutazione della proposta monnettiana dell'Euratom per la gestione di una comune politica energetica, ovvero delle iniziative assunte da Spinelli, commissario europeo tra il '70 e il '75, in tema di tecnologie e ricerca, di promozione di un'industria aeronautica europea, di creazione di una politica comune dell'ambiente e di una legislazione comune in materia di: imprese (modello unico di impresa europea, euro-corporation), sicurezza sul lavoro, standard di fabbricazione comuni). Nel complesso, è stato osservato che circa un 60% delle proposte di Spinelli è già stato adottato in sede Ue, confermando la preveggenza e la visione del leader federalista, che già da lungo tempo sarebbe stato opportuno aver fatto proprie.

Appare dunque chiaro, a nostro avviso, che è necessario avanzare al più presto verso una forma federale di elaborazione e gestione delle più importanti politiche dell'Ue, fosse pure a costo di creare un nucleo ristretto di paesi disposti a bruciare le tappe, partendo dalla realtà dell'Eurogruppo.

In questo ambito, un'azione svolta dall'Italia, anche per dare all'Europa una voce maggiore in campo internazionale, andrebbe intensificata con sensibilità, costanza di orientamenti e dialogo permanente con i membri dell'Unione, assicurando un ruolo di mediazione e di impulso.

Tra i grandi obiettivi che in questo contesto una forza politica, purché dotata di un patrimonio di idee e una carica ideale, è chiamata a perseguire ci sono in egual misura: la soluzione della questione palestinese grazie alla garanzia dell'Ue; l'organizzazione di uno spazio euromediterraneo in cui inserire, agendo a livello Ue, Consiglio d'Europa, Nato, Onu, anche i rapporti con la Russia e la Turchia; la costruzione di una politica estera e di sicurezza della Ue, comprendendo in essa anche il tema dell'esercito europeo; la presenza della Ue in quanto tale all'interno delle organizzazioni internazionali; la lotta alla fame nel mondo e il decollo delle aree sottosviluppate; la tutela degli equilibri ecologici; l'esplorazione dello spazio.

Quanto alle riforme interne al nostro paese e al metodo con cui attuarle, esse andranno accompagnate da un preventivo, sistematico confronto con quanto disposto nei paesi più rilevanti dell'Unione, ai quali ci uniscono, come si è detto, la moneta, il mercato unico, le normative comunitarie, il comune assetto istituzionale, etc. Prescindere da questo ambito significa mancare dei riferimenti indispensabili per un'efficace azione legislativa, quand'anche fosse caratterizzata da dissenso, a questo punto consapevole, ma pur sempre sottoposto alle comuni normative, rispetto ai partner.

In generale, detto un po' scherzosamente, sussiste la fondata impressione - corroborata da dati recenti di natura economica, nonché da pur contestati ammonimenti della Banca d'Italia - che gli europei, volendo evitare di diventare troppo tedeschi, debbano comunque rassegnarsi a diventare più tedeschi di quanto siano ora. Vale a dire, superato lo sconcerto, che appare indispensabile procedere ad una attenta valutazione dei criteri che hanno consentito al più grande paese europeo, grande sia in termini demografici che economici, di affrontare con maggior successo degli altri le difficoltà degli ultimi anni, tanto sul piano produttivo che su quello sociale. L'obiettivo dovrà essere di recepire seppur criticamente tali criteri, ispirati all'economia sociale di mercato, tanto in sede Ue che nazionale. Al tempo stesso varrà la pena di restare in guardia dalle tentazioni del "beggar-thy-neighbour", da taluni rilevate in campo industriale e sindacale in riferimento a certo solipsismo politico-culturale della Repubblica Federale nei confronti del resto dell'Europa. Un compito, in altre parole, che richiede un'estrema capacità di riflessione, mediazione ed intervento.

In tale contesto, appare inoltre raccomandabile valutare con i partner il grado di equilibrio ottimale fra intervento pubblico a vario titolo, sia all'interno degli stati, sia dell'Unione, e intrapresa privata. Non è detto che la pura liberalizzazione, peraltro spesso non attuata dagli altri stati membri sul piano interno, sia l'unico strumento di dinamicizzazione della società e dell'economia, oltre che di tutela dell'occupazione e del lavoro. Molto si può attendere da programmi di investimento promossi dalla Ue stessa nei settori strategici, sia pure in un contesto di concorrenza fra imprese, ovvero da una vera e propria politica industriale, sempre auspicata ma mai istituita.

Al tempo stesso la dovuta attenzione deve essere riservata anche ad un altro aspetto costitutivo della costruzione comunitaria: quello della garanzia di un sviluppo equilibrato dell'insieme dell'Unione, evitando situazioni monopolistiche ed anche eccessive concentrazioni produttive in singole aree. A titolo di esempio e come spunto di utile riflessione tutto da discutere, sia sul piano industriale che sindacale: mentre Francia e Germania hanno di fatto mantenuto in vita le proprie imprese automobilistiche, il nostro paese ha dovuto se non rinunciarci, almeno fonderle con un grande gruppo statunitense (evoluzione, quest'ultima, che conferma i legami della società italiana con quella statunitense, ma meritevole di notevoli approfondimenti sia sul piano interno dell'Ue, sia in merito al rapporto Usa-Ue). Ebbene, è possibile immaginare uno sviluppo che non cancelli le specificità nazionali, o di singole aree, mantenendo in accettabile equilibrio ragioni della concorrenza e aspirazioni alla continuità di potenzialità produttive?

Un aspetto connesso, da non sottovalutare, è che i nostri maggiori interlocutori europei, quando decidono, come hanno fatto, di aumentare la spesa per istruzione e ricerca in un momento di crisi, si attendono di uscire con un quid di vantaggio rispetto agli altri nel momento della ripresa: ciò significa, realisticamente, che attorno a questi temi si giocano notevoli interessi nazionali, non abbastanza considerati nella loro rilevanza, e che andrebbero affrontati soprattutto con un maggior grado di integrazione, ma anche di responsabilizzazione interna. Appare evidente, fra l'altro, che privarsi di centri di ricerca e di imprese di primaria importanza depaupera le singole società di saperi, di opportunità per i giovani e persino di motivazioni a dotarsi di un adeguato livello di istruzione professionale ed universitaria.

Fra gli obiettivi del Partito democratico dovrebbe figurare inoltre un grande sforzo nazionale per la riduzione del debito pubblico (che di per sé riduce di alcuni punti percentuali le potenzialità di ripresa), da attuarsi soprattutto mediante una puntuale, metodica razionalizzazione, efficientizzazione e moralizzazione della macchina tanto statale che produttiva, nonché dei servizi in generale, motivando e responsabilizzando l'intero corpo sociale, piuttosto che con semplice dirigismo contabile, spesso incline a complicare procedure di spesa e apparati di controllo.

Passando oltre, in tema di "patto con gli europei", per un verso va sollecitata una normativa europea, ancor oggi insussistente, al fine del perseguimento della criminalità organizzata, avvalendosi delle esperienze acquisite dalla magistratura e dalla legislazione italiana nella lotta contro la mafia; per un altro verso, l'Italia dovrebbe almeno recepire, cosa che non ha ancora fatto, le normative europee per la confisca all'estero dei beni esportati dalle organizzazioni criminali, come ha recentemente denunciato la commissaria Reding; per un altro ancora, sarebbe auspicabile consentire ai partner una ricognizione profonda del caso italiano e l'individuazione di strumenti, anche di tipo sovranazionale, per la repressione di tali fenomeni, che coinvolgono problematiche non di pura valenza giudiziaria, ma anche, presumibilmente, di intelligence da parte dei servizi di sicurezza di singoli paesi (nulla di male ci sarebbe ad istituire una figura di controllore europeo dei fenomeni mafiosi). Nel "patto con gli europei", che consentirebbe del resto un incremento degli investimenti nel nostro paese, andranno anche previsti impegni come quelli per il pagamento in tempo debito delle fatture, per il contenimento dell'economia sommersa e dell'evasione fiscale, per il controllo sull'esportazione di capitali, etc.

Altre tematiche, dalla sanità alla previdenza sociale, al sistema pensionistico, alla formazione scolastica e professionale vanno affrontate con una chiara visione europea.

Caro Segretario,

nel concludere questo nostro appello, sottolineiamo che l'attuale carenza di iniziative di respiro europeo da parte dei leader dei maggiori paesi dell'Ue esige un sovrappiù di impegno da parte del nostro e dal Pd in particolare, il quale, sia pure sul piano simbolico, che non è mai trascurabile, farebbe bene a inserire nelle proprie insegne, al momento piattamente nazionali, almeno un accenno grafico ai colori dell'Unione europea.

Quanto ad Altiero Spinelli, recenti sviluppi all'interno del Parlamento europeo registrano lo sviluppo di aggregazioni e proposte politiche direttamente ispirate al suo messaggio e al suo esempio. Sarebbe a dir poco auspicabile che il Pd, invece di restare scavalcato, raccogliesse con grande risalto l'eredità dell'antico confinato antifascista di Ventotene: diventerebbe in questo modo il primo grande partito italiano, e presumibilmente dell'Unione, a fare dell'obiettivo della federazione democratica europea il suo fattore fondativo. Un obiettivo profondamente innovatore ed epocale al tempo stesso, per il suo radicamento di lungo periodo nella storia dei movimenti popolari e per la prospettiva offerta di un miglioramento decisivo della civiltà umana.

Restiamo al tempo stesso profondamente convinti che il progetto dell'Italia europea, profondamente responsabilizzante, contribuirà in modo decisivo a fronteggiare i pericoli di separatismo e di frantumazione del tessuto connettivo interno del paese provocati dagli egoistici, torbidi e ciecamente introflessi conflitti di interessi particolaristici e di potere personale che hanno caratterizzato questi anni da dimenticare.